Daniela Carmosino su “Per troppa luce”

NEL VENTRE DI NERIPOLI – L’Indice dei libri del mese
di Daniela Carmosino

1/5/2017

Uno dei tanti meriti di Per troppa luce, il nuovo romanzo di Livio Romano, è quello di suggerire le domande giuste. La prima potrebbe essere: perché il tema del parco turistico d’ambientazione storica gode, da qualche anno, di così larga fortuna? Dopo “Eternapoli” di Giuseppe Montesano (Di questa vita menzognera, 2003) e il “Trinacria Park” dell’omonimo romanzo di Massimo Maugeri (2013), ecco infatti “Neripoli”, mostruoso parco a tema che campeggia in Per troppa luce. In realtà, qui, il parco si presenta solo in forma di progetto, ideato da tre affaristi cialtroni e un sedicente architetto; a opporvisi, un comitato di cittadini che vuole proteggere l’area del Salento a esso destinato e già coltivata a ulivi secolari. Ebbene, un motivo per cui l’idea del parco tematico eccita la fantasia degli scrittori potrebbe essere la sua predisposizione a offrirsi quale allegoria di quella che Gilles Lipovetsky chiama Cultura-Mondo: nuova forma che, nell’Ipermoderno, assume la cultura, la quale, avendo assorbito le logiche del mercato, propone secondo tali logiche ogni fenomeno culturale, spettacolarizzandolo e conferendogli quella leggerezza che ne permetta un facile e veloce consumo.

Eppure, dopo pochi capitoli, potrebbe sorgere un altro dubbio: che Per troppa luce sia soprattutto un romanzo d’amore. È vero, la storia di megalomania edilizia è quella che fa da scheletro e che ci fa scorrere rapidissimamente sulla rètina una carrellata di immagini cult della nostra epoca, facendoci così sperimentare, grottescamente amplificata, la nuova percezione dello spazio-tempo: ma ciò che dà carne e sangue e peso al romanzo è il contraddittorio rapporto sentimentale fra l’ispettore del lavoro Antonio Congedo (nome che è quasi una profezia autoavverantesi) e Simona, avvocato civilista. Entrambi invischiati nelle disavventure di Neripoli, attraverso poche scene simboliche ad altissima intensità (sublime la corsa sulle cyclette orientate verso il firmamento) i due ci spingono a domandarci se e come, oggi, si possa amare, lasciandosi coinvolgere nel profondo, godendo della passione, del sesso come di “una celebrazione della vita, dell’amore, del creato”. Galleggiano, infatti, attorno a loro, coppie d’ogni genere, tutte affannate in rapporti sessuali superficiali, frettolosi e distratti, strategici e utilitaristici, bulimici e anaffettivi, sorta di onanismi di coppia inutilmente acrobatici o comicamente improduttivi.

Un’altra domanda riguarderà, poi, il titolo: sebbene questo si riferisca alla qualità del rapporto tra Antonio e Simona, come pure alle ragioni della resistenza opposta da Antonio, il senso è così potente e pervasivo da estendersi all’intero romanzo

Un’altra domanda riguarderà, poi, il titolo: sebbene questo si riferisca alla qualità del rapporto tra Antonio e Simona, come pure alle ragioni della resistenza opposta da Antonio, il senso è così potente e pervasivo da estendersi all’intero romanzo. L’esposizione all’intensità della luce naturale che il sentimento, la bellezza interiore, l’intimità condivisa diffondono ci fa paura, non ci siamo più abituati. Non solo: se la luce conferisce al mondo e alla dimensione spazio-temporale la prospettiva, la profondità tipiche del moderno e della cultura umanistica, non potrà che esser guardata con sospetto in un setting in cui il tempo ha rinunciato al proprio futuro progettuale e s’è acquattato sulla superficie del (godimento) presente, mentre il passato storico-culturale è diventato un business redditizio.

Arriviamo così alla domanda successiva: quanto appeal può avere, sul mercato, un romanzo che propone un linguaggio così poderoso e vitale da sembrare che stia sperimentando su di sé la complessità del mondo? Ebbene, Per troppa luce è la risposta: romanzo godibilissimo, appassionante e divertente, se riesce ad afferrare il lettore e a trascinarlo allegramente nell’algido inferno del nostro tempo è proprio in virtù di una lingua tentacolare, che origina, sì, da una naturale inclinazione, già esibita nel 2001 in Mistandivò ma che oggi ha raggiunto il massimo della potenza e della maturità espressive. Fa da Virgilio un irresistibile narratore onnisciente, bonariamente ironico, sarcastico, parodico, che s’intromette, commenta e chiama in causa il lettore. Infine, l’ultima domanda sembra che Livio Romano si diverta proprio a suggerirla. Così ci descrive, infatti, il modus operandi di Antonio: “Una volta fiutata una pista, la sua mente (…) prendeva non solo a cogliere sfumature le più minuziose, ma a deformare la realtà fenomenica perché combaciasse con l’ermeneutica più accreditata di un combinato disposto di disposizioni di legge”. Ora, se aggiungiamo anche i ritratti dei personaggi resi attraverso la fisiognomica, la gestualità, le inflessioni dialettali; la ricostruzione dei “motivi biografici”, il risalire “alle cause delle cause” nelle singole biografie e l’intrecciarsi di queste con la storia collettiva degli ultimi quarant’anni, viene da chiedersi: non sarà che nella vena espressiva di Livio Romano scorra la prosa d’un gigante della letteratura, Carlo Emilio Gadda?